Filosofia fuori le mura: intervista a Giuseppe Ferraro

Sono circa le 17:00 quando arriviamo al luogo dell’appuntamento col professor Ferraro. È stata una giornata caldissima, ed io ed il mio amico abbiamo girato tutta Napoli a piedi per fare alcuni servizi e per ingannare il tempo fino all’ora dell’incontro. Quando citofoniamo al professor Ferraro siamo dunque stanchi, stressati, accaldati e innervositi. Giuseppe Ferraro ci accoglie con gentilezza e premura, e ci accompagna nel suo studio, dove svolgeremo la nostra chiacchierata: uno stanzone lungo e alto, pieno zeppo di libri di filosofia, un vero e proprio paradiso per me, studente di questa materia e instancabile lettore. Comincio già a sentirmi meglio, ad esser più rilassato. Dopo esserci accomodati e presentati più a fondo, la nostra chiacchierata parte nel modo più naturale possibile. Per chi non lo conoscesse, Giuseppe Ferraro è un docente di filosofia, che però, a differenza di molti suoi colleghi, non si è limitato ad insegnare tra le quattro mura accademiche, ma che ormai da anni porta la filosofia nei territori più difficili: dalle scuole di periferia (che lui ama definire “scuole d’eccezione”) alle carceri. Abbiamo chiacchierato con lui per farci raccontare la sua esperienza.

Professor Ferraro, “Suburbio” è un blog che si occupa di provincia e di periferia, intesa non solo come determinazione geografica, ma soprattutto, dal punto di vista concettuale, come marginalità. Lei che ha svolto in tutti questi anni la sua azione sociale ed il suo insegnamento in queste zone, dalle scuole di provincia alle carceri, come definirebbe la periferia?

Vi dico subito che io preferisco alla parola “margine”, la parola “confine”, più specificamente “confine interno” della città. Le periferie del mondo mi piace chiamarle. I confini interni non sono segnati da una determinazione geografica o da una definizione topografica, ma sono confini di voci. Per me questo è molto importante: una città arriva fin dove la voce ha parola. Quando la voce si spegne in un grido o resta attonita di fronte a situazioni terribili, o di fronte al fatto che non sai parlare, la città finisce. Citando Aristotele posso dire che la città è tale quando è raggiungibile da una sola voce. Per me così è cominciata quest’esperienza: è arrivato quel momento in cui mi sono chiesto se quello che stavo facendo continuasse ad andar fatto come lo stavo facendo, oppure smettere e cambiare il modo di fare.

A cosa si riferisce professor Ferraro?

Sto parlando della filosofia, che non è un mestiere, ma è una soglia di vita. Mi sono fatto questa domanda: io che insegno filosofia devo continuare a farlo come lo sto facendo? E se la filosofia si occupa di questioni estreme, è sui luoghi estremi che va portata, perché se non ha niente da dire in questi luoghi è meglio metterla da parte come un giocattolo rotto. E allora me la sono portata, sui luoghi di confine, che sono le periferie, le scuole del cosiddetto disagio, sono le carceri. Sì l’ho sentita la filosofia, nelle carceri ho fatto più filosofia che all’università. Proprio nella qualità. E non sto scherzando.

In che senso professore?

Sia ben chiaro: lo studio matto e disperato va fatto. Assolutamente. Ma poi dopo va…applicato! Capisci che il sapere è un “possesso senza proprietà”: tutto ciò che so è mio, indiscutibilmente, però l’ho imparato da questi libri che vedete qua, dalle persone che ho incontrato, e allora va restituito. Va restituito! Ma non lo puoi restituire a chi ce l’ha già, ne tanto meno a chi te l’ha dato. E allora lo devi restituire dove non c’è. E la cosa bella ragazzi è questa: si fa più filosofia tra i bambini delle periferie o tra i carcerati, che all’università. Tu Platone lo trovi in carcere, trovi Socrate che parla.

Ci può parlare della sua esperienza nelle carceri? Che attività svolge in quei luoghi?

Ti rispondo semplicemente: faccio filosofia. In maniera diretta, in maniera autentica, come andrebbe fatta. Offro uno strumento. Facciamo dialoghi, si parla di amicizia, si parla della regola, si parla della verità. Ad esempio, ci mettiamo in cerchio, porti un testo, porti una frase e si discute, ognuno dice la sua, ognuno la traduce, cioè la ripete con le proprie parole, riferendole ad una propria esperienza. Tu non devi dare delle spiegazioni, ma devi offrire degli strumenti da usare. Se devo rispondere con una battuta alla domanda su cosa facciamo in carcere, io rispondo che ci tocchiamo, letteralmente. Le cose vere sono quelle che ci toccano.

Un po’ di tempo fa ebbi la fortuna di leggere il libricino L’assassino dei sogni, lettere fra un filosofo e un ergastolano, che raccoglie lo scambio epistolare tra lei e Carmelo Musumeci, condannato al carcere a vita. Le volevo chiedere se possibile di approfondire la sua posizione sull’ergastolo e, usando un termine oramai abusato quotidianamente, in che modo secondo lei si può riformare questa situazione?

Il grado di democrazia di un paese si misura dallo stato delle sue scuole e delle sue carceri: quando le carceri saranno scuole e le scuole non saranno più carceri si potrà parlare di uno stato democratico. Per quanto riguarda la questione del carcere a vita la mia posizione è molto netta: abbiamo accettato l’ipocrisia di abolire la pena di morte, ma conosco persone che sono in carcere da 42 anni, senza poter fare nulla. Ho letto sentenze con date di fine pena del tipo “31 dicembre 9999”. Sono misure di follia. Nel carcere si diventa carcerati, nel carcere si parla solo di carcere, ti incattivisce. Dove c’è brutalità si diventa bruti. Dove c’è oscenità si diventa osceni. Il carcere come è concepito, dove stai lì senza fare niente, dove si parla di rieducazione, che è una brutta parola, è terribile. Sono follie. Nel libricino che hai citato c’è scritta una cosa fondamentale: la pena deve essere un diritto, la pena deve valere la pena. La pena è uno sforzo che tu fai per la riuscita di una cosa. La pena deve essere il diritto di poter ripensare alla propria vita. Il carcere non deve essere rieducativo, ma deve essere l’educazione alla libertà, paradossalmente deve essere una scuola di libertà. Libertà che prima o poi va restituita.

La questione professor Ferraro allora è questa: come si fa a far cambiare idea alle persone su questo tema? Paradossalmente ascoltando l’opinione pubblica, sembrano esserci più persone favorevoli al ritorno della pena di morte che persone contrarie all’ergastolo.

Chiariamo innanzitutto una questione: io non faccio il buono, io non sono per l’impunità. Chi commette dei reati deve pagare: ma non questo carcere, non questo ergastolo, ma una scuola di libertà. Può anche darsi che una persona che si è macchiata di crimini terribili possa uscire dopo un anno, ma per me questa stessa persona per il resto della sua vita deve restituire. Per me la restituzione è fondamentale. Tutti quanti devono restituire: hai fatto un crimine? Lo devi restituire. La restituzione è il tuo legame sociale, è il tuo ritorno in città. Un omicida deve impegnarsi in azioni sociali per il resto della sua vita. Non posso tenerti chiuso in una cella per il resto dei tuoi giorni, ma devi impegnarti. Le persone non sono educate su questo tema: la gente che risponde che ci vuole la pena di morte è gente capace di ammazzare. Chi dice che ci vuole il carcere a vita è gente che andrebbe messa in ergastolo. Se una vita non ha un fine e non ha una fine, si arriva alla perdita di senso. Bisogna partire da un presupposto, che è quello del cambiamento: tutti possiamo cambiare, come tutti possiamo ammazzare. Sei uomo in quanto pensi che le cose possono cambiare. Se non pensi che le cose possono cambiare hai rinunciato all’umanità, non sei più uomo.

In chiusura, quali sono i suoi progetti per il futuro prossimo professore?

Sto chiudendo questo testo che si chiama “Per la critica della ragione penale”, sto tenendo sempre più lezioni aperte e pubbliche, o lezioni in piazza. Il carcere resta per me un impegno costante, è un luogo di confine dove capisci le cose, perché soltanto dai luoghi di confine capisci il centro. Ho tenuto ultimamente questa serie di incontri su “La filosofia che nasce a Napoli”,e a giugno si terrà la seconda edizione de “La notte dei filosofi” tramite “Filosofia fuori le mura”, quest’anno sul tema dei sentimenti. E niente, si continua sempre, l’importante è non fermarsi mai!

Si è fatto molto tardi, è passata un’ora e mezza senza che ce ne rendessimo conto. E’ calato anche il buio, che però non ha interrotto la nostra bellissima conversazione. Adesso però è tempo di salutarci: uscendo dallo studio mi guardo nuovamente intorno, circondato da questa infinità di libri, e mi faccio scappare una frase: “Che bellezza, mi troverei proprio bene in mezzo a tutti questi testi”. Il professor Ferraro sorride e prontamente risponde: “Sì, però con l’obiettivo di portarli fuori!”. Meravigliosa lezione imparata.

Ci salutiamo e torniamo in strada diretti alla metropolitana: siamo ancora stanchi e accaldati, ma molto più rilassati e felici di prima. La seduta terapeutica di filosofia ha fatto il suo effetto.

L’intervista risale al 2016.

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